giovedì 7 aprile 2011

Petali d'acacia

Quella sera sarebbe stata perfetta. Doveva esserlo. Era da giorni che ci pensava. 

Di solito non era un tipo molto riflessivo, anzi, era molto bravo a prendere la vita in mano dandole la forma che preferiva. Era bravissimo a superare ogni cosa, era forte e soprattutto non sopportava che i problemi avessero la meglio su di lui. 
Lei sarebbe arrivata a minuti. Minuti oppure ore, gli sembravano uguali, gli venne il dubbio che le lancette fossero incollate, che non girassero davvero. Andò persino a controllare più da vicino che stessero realmente girando. 
Troppo tempo da solo per mandare tutto all’aria. Era grande ormai, come diceva sua madre. 
Troppo preso dai suoi studi e dalla sua carriera per poi accorgersi che gli mancava un pezzo essenziale. Aveva sentito un certo buco in un giorno di primavera, in un parco dove c’erano tantissime piante in fiore, fiori bianchi ovunque, petali piccoli come gocce d’acqua che piovevano giù a terra, un profumo intensissimo di miele. Il buco aveva iniziato a perforargli lo stomaco quando aveva notato che stava camminando con la sua ventiquattrore e il suo bell’abito grigio, mentre intorno a lui scorrevano sorrisi, uno dopo l’altro, spesso uno legato all’altro, mano nella mano. Aveva guardato nella sua di mano, aveva visto solo uno stupido oggetto rettangolare, e il suo sorriso era tappato lì dentro, chiuso nella valigetta. 
Non aveva nemmeno un gatto. 
Forse se n’era accorto tardi. O forse ancora no. Aveva trent’anni, insomma. 
E poi il giorno dopo aveva solo alzato lo sguardo. Era bastato quello per vederla. La sua Kameko. Da quel giorno si era accorto che era sempre stata sua. Stava nella scrivania di fronte, era stato proprio un ebete a non guardare mai oltre il monitor del suo computer. 
Lei invece...Oh, lei sì che sbirciava spesso al di là. Quella fronte di ragazzo corrugata, che pesava su due occhi che non erano più che due fessure, neri come due noccioli di susina, che correvano senza distrarsi mai da un numero all’altro, da una tabella all’altra, ignorando il caos dell’ufficio. 
Quella mattina per Kameko era stata una sorpresa vedere quegli occhietti incrociarsi con i suoi, per una volta. 
Le otto meno cinque. Dai. Su. Più veloce. 
Pullover verde. Forse il verde non andava bene. Gli dava un aspetto poco serio. 
“Stupido, non è una riunione di lavoro! Il verde sarà perfetto...o magari odia il verde, magari da piccola ha subito un trauma gravissimo legato al colore verde e il solo vederlo...” 
Il campanello. 
Sobbalzò davanti allo specchio e rise di se stesso. Percorse lo stretto ingresso dando un ultima occhiata alla piccola tavola accuratamente preparata per due, semplice e disinvolta, ecco. Aveva messo al centro una candela, di quelle basse, di cera colorata, e qualche fiore, rametti d’acacia, ne aveva una pianta nel piccolo giardino dietro casa. 
Aprì la porta assaporando ogni gesto. 
- Ciao - “sei meravigliosa”. Pronunciò solo il “ciao”, la seconda parte preferì lasciarla riecheggiare nel suo cervello per un po’, senza dirlo ad alta voce. 
Aveva i capelli mossi e castani, e aveva sempre trovato che, per essere a mandorla, i suoi occhi fossero molto più grandi di quelli di tutte le altre donne. Più luminosi, s’intende. 
Lei era stata più intelligente (ovviamente) si era vestita di bianco, non come lui, verde. Puah. 
Avrebbe dovuto vestirsi di bianco anche lui. 
Si sedettero a tavola. Era tutto prontissimo, più pronto di così si moriva. Non restava che iniziare. 
Notò che i suoi orecchini, sottili e pendenti, sembravano fatti di legno, forse lo erano. Quando scuoteva la testa, anche leggermente, emettevano lo stesso suono delle canne di bambù col vento. 
Si sentiva radiosa. Non sapeva se lui lo avesse notato o no, quanto era nervosa, ma felicissima nel contempo. Solo, forse il bianco le sbatteva troppo in faccia, forse un jeans e una maglietta colorata sarebbero stati meglio. “Non ho mica fretta, perchè mi vesto già come una sposa?” 
- Vuoi da bere? - gli chiese distraendola da quei pensieri superflui. 
“Non parlare di lavoro, non parlare di lavoro....” 
- Sei passata per il parco in questi giorni? – 
- No, ho preso la metropolitana... – 
- Allora una di queste mattine ci andiamo insieme – 
Le avrebbe mostrato i fiori. Tutti quei fiori bianchi come il suo vestito, che tra l’altro, stava benissimo con la sua carnagione. Avrebbe dovuto portarcela prima che il vento facesse cadere tutti i petali, lasciando spazio alle foglie. Verdi. 
Ne trovarono tante di cose di cui parlare. Era un miracolo che si fossero trovati. Lo pensavano entrambi, ciò li riempiva di gioia. 
Poi si erano presi la mano. Se l’erano stretta in silenzio, e si erano guardati giù, giù in fondo agli occhi, dentro quei noccioli di susina. Lei sentiva il cuore scoppiarle nel petto, credeva di morire; lui nascondeva i brividi. Incredibile come si sentissero così inesperti, “grandi” com’erano. 
Ma la calamita si era attivata, l’uno assaporava le paure e le emozioni dell’altro. 
Non si erano nemmeno accorti di essersi avvicinati tanto. Stavano assaporando quell’ultimo luccichio che si vede prima che le labbra... 
La luce tremò e la lampada si spense. Di colpo. Era calato il buio. Si distrassero e si guardarono intorno confusi. Era saltata la corrente, di sera tardi. Cavolo. 
Da dove proveniva quel tintinnio ora? Entrambi diressero l’attenzione verso la tavola. I bicchieri di vetro, appoggiati uno vicino all’altro, vibravano e si toccavano tra loro emettendo quel suono. 
Realizzarono con orrore quello che stava per accadere già prima di udire quel rombo terrificante, quel ruggito spietato sotto i loro piedi, giù nel cuore della terra. 
Venne il momento che i quadri alle pareti tremarono e si staccarono, i vetri andarono in pezzi.
Alcuni libri caddero giù dalla libreria, si aprirono sul pavimento, un sull’altro, continuando a tremare. Gridare non serviva, il tuono sovrastava tutto. 
Era pietrificata quando la scosse violentemente per un braccio, trascinandola con troppa forza verso una via di fuga. La grande libreria dondolò un’ultima volta per poi ostruire definitivamente l’ingresso. Inciampò e cadde trascinando anche lei. Non riusciva a rialzarsi e Kameko piangeva. 
Così si fece forza, barcollando la tirò a fatica in direzione della portafinestra, quella che dava sul giardino. Gli sportelli della cucina si aprivano da soli e i piatti si frantumavano a terra. 
Non era possibile. Ora basta, deve finire! Sono ore che trema! 
Minuti oppure ore, gli sembravano uguali, gli venne il dubbio che le lancette fossero incollate, che non girassero davvero. 
Ma l’orologio era sparito. Probabilmente i suoi pezzi erano sparsi sul pavimento insieme a tutto il mare di altra roba. 
- Dobbiamo correre, ti prego Kameko! - la sollevò malamente, forse le stava facendo male. La strinse assicurandola al suo corpo e si mosse più veloce che poté, per quanto possibile, verso l’unica via di salvezza. Aprì la porta a vetri, le crepe erano paurose, si sarebbero frantumati da un momento all’altro. Fece un passo incerto verso il piccolo giardino, mantenendo l’equilibrio a stento. 
Ma l’albero stava già cadendo. 
Un ultimo grido che si confuse nel caos, due corpi avvinghiati, verde e bianco, come le foglie e i fiori del parco, i fiori di acacia, come la pianta che li aveva appena travolti, polverizzando il vetro e le travi del soffitto, spaccando i muri di quella casetta che a resistere ci aveva provato. 
Una nube di polvere al sapore di sangue, calce, schegge e lacrime. 
Tremò ancora pochi secondi, poi si placò. Il tempo di lasciar depositare il pulviscolo. Di sentire quel silenzio angosciante, provocato dal tuono la cui prepotenza aveva messo a tacere ogni cosa. 
Qualche leggero petalo di acacia si permise ancora di svolazzare nell’aria, prima di confondersi con le macerie, prima di posarsi sulle rovine di una casa e di due esistenze appena intrecciate, che non erano più. Due corpi che ancora si stringevano la mano senza vita. 
Due corpi, cento, mille, duemila. 

 

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