martedì 27 dicembre 2011

Biografia di una stupida candela

Salve a tutti, io sono una candela.
E come ogni candela, conduco una stupida vita da candela.
Sono una di quelle candele obese, che nemmeno entrano in uno di quegli aderentissimi candelabri dorati o di vetro, di quelli d’argento che le domestiche ci passano le ore a strofinarli col bicarbonato.
Sono una cavolo di candela cilindrica con un diametro abnorme, e il lusso più galattico che mi sia mai capitato è stato di venire appoggiata su un centrino della nonna o essere messa dentro un contenitore che mi sembrava la boccia di un pesce.
[Inciso! Parlando di bocce per pesci, vorrei fare presente che la mia, ad oggi, è vuota, perchè il pesciolino è stato liberato nella bialera, così che potesse nuotare fino al mare, e invece che morire a causa dell’acqua salata, sarà sicuramente arrivato alla città perduta di Atlantide (che a questo punto non sarà più “perduta”) per diventare un sex simbol tra le sirenette e le cavallucce marine. Alla faccia di chi insinua che sia uscito sotto forma di sushi da qualche sistema di irrigazione dei campi di Devesi. Fine dell’inciso!]
Torniamo a me, la candela, dato che gli oggetti inanimati sono sempre messi in secondo piano rispetto a quelli animati.
Dicevo, non sono mai stata degnata di un gran piedistallo, e come se non bastasse ho un enorme complesso di inferiorità, frutto di tutta una serie di crisi d’identità. Sono stata costruita di banalissima cera bianca, così: “Oh, il bianco è così fresco, starà benissimo sulla tavola per Ferragosto!” ma anche: “Oh, il bianco rievoca la candida neve, sarà perfetto per il centrotavola del cenone di Natale!”.
Il mio è un colore ambiguo. E come ogni cosa ambigua mi fa sembrare stupida ed inutile.
Ora non ridete se vi dico che sono ancora vergine, ma sinceramente, tutte le altre candele che si vantano in giro delle loro esperienze con accendini, fiammiferi e qualche accendigas mi danno l’idea di tante sgualdrine, senza contare che tutte quelle gocce lungo il corpo e tutte quelle orrende deformazioni causate dal calore sono inguardabili. Se c’è una cosa di me di cui vado fiera è solo la mia verginità, è l’unica cosa che ho. Anche perchè, udite, udite, il mio non è nemmeno un profumo, è uno di quegli odoracci che ti si appiccicano addosso in fabbrica (perchè da una fabbrica provengo), che ricordano il detersivo per lavatrice. Non come quelle signorone artigianali, di quelle che sono tutto un rococò al profumo di vaniglia importata dal Madagascar tostata nel tostapane piemontese di Gianduia, dove poco prima erano state tostate le fette di pane cassetta Mulino bianco ai 13 cereali, così che il risultato sia un aroma di the Twinings con retrogusto corposo e agrumato alle bacche di bosco incantato.
Quelle là escono già vecchie dai negozi, tempo che arrivi il collezionista di turno ad apprezzarne il pregiato puzzo, piuttosto che la donna milionaria in crisi di mezza età, che dopo aver provato tutti gli psicanalisti della sua città si dà alla aroma terapia e alla meditazione.
Per non parlare di tutti quei merletti e trasparenze, sbrilluccichini e foglie secche incastrate nella cera. Zitelle, suore, ecco. Tutto fumo e niente arrosto...anzi, tutto stoppino e niente fumo.
Non è proprio il mio mondo, tsk tsk.
Io sono più una tipa acqua e sapone, e non potrebbe essere altrimenti.
Insomma, non conosco nemmeno la ditta che mi ha prodotta, perchè sono troppo cilindrica per sbirciare l’etichetta che ho attaccata sul sedere da tutta la vita, non so da dove vengo, dove sto andando...e in verità, non so nemmeno a cosa servo.
So solo che prima o poi, tra giorni, ore o secoli, qualcuno deciderà di accendermi, e allora sarò una candela di quelle che hanno un sacco di cose da raccontare, tipo le Citronelle, quelle sì che sono tipe di carattere. La morte non mi spaventa, morirò bruciando, a quanto pare. Diventerò sempre più piccola e deforme, la mia insulsa cera si spargerà ovunque, che fine indegna.
Ma siamo sincere, esiste una morte dignitosa per una come me? In quale modo un cilindro di cera può morire nella speranza di venire ricordata con onore? Mi avessero almeno messa in un cimitero, accanto a qualche lapide, a fare da cero, sarei stata l’ultimo barlume di vita in mezzo a tutti quei morti, ma no! Devo starmene su questo ripiano a far da campo nomadi agli acari!
Ma in fondo, cosa volete, ognuno nasce nel suo ruolo per un motivo.
E secondo la confezione dentro cui mi hanno venduta, io ero l’articolo più carino e allo stesso tempo più indispensabile dell’universo.
Non so neanche per quale motivo io sia stata qui a farmi fare la biografia, sono solo una candela del cavolo, tu, con quel computer, vedi di levarti di torno, che ti ho già dedicato troppo del mio preziosissimo tempo inutilizzato.

- Fin -

NOTA per il LETTORE:
La soprascritta biografia non ha nessun senso. E’ il puro ed assoluto concetto di “fine a se stesso”, per antonomasia. Ma a differenza della matematica liceale, la cui infondata finalità decreta anche la sua inutilità, la stupida biografia della candela è carina solo per il fatto che se la mettessimo davanti ad uno di quegli intellettuali da quattro soldi da talk show, spacciandola per uno scritto di Fabio Volo, assumerebbe tutte le sfaccettature etiche, sociali, politiche, scolastiche, filosofiche, antropologiche, materialiste, edoniste, stilnoviste e teologiche del mondo.
Quindi, la candela sarà felice di sapere (e lo riferirò io stessa) che la sua esistenza ha un senso e che se fosse un presidente della Repubblica, la sua biografia venderebbe un sacco. 


venerdì 28 ottobre 2011

Ogni tanto ci sta un post idiota.

Dopo test a sorpresa di verbi di latino lunedì, interrogazione di filo martedì, analisi del testo mercoledì, verifica di storia (disastrosa) giovedì e verifica sulle disequazioni più interrogazione sul Cantico di frate Sole oggi...io dovrei prepararmi per biologia e fisica domani? E finire pure le assonometrie??
Ma che bella barzelletta!
Fuck, io ora mi prendo una camomilla, vado a dormire con la t-shirt dei Green Day e domattina confido in Allah u.u

domenica 18 settembre 2011

Quando Franca scoprì di essere liquida

Franca aprì la grande finestra al secondo piano di casa sua.
Il sole, per quanto ormai tentasse di nascondersi dietro un profilo di montagne, era tradito dal riflesso arancione proiettato sulle nuvole.
Il cielo era stato coperto tutto il giorno, spesso e pesante, le nuvole, pensava Franca, riuscivano a dare una dimensione al cielo. Sembrava più facile pensare di poterlo toccare.
Erano da poco passate le sette, si sentiva già l'odore della sera, il freddo impregnato di umidità che di solito accompagna la notte era pronto a riempire l'aria.
Scavalcò il davanzale e vi si sedette, le gambe ciondolanti, i talloni sfiorarono i mattoni che rivestivano la casa.
Ora che il sole ha deciso di andare a far visita alla'altra metà del pianeta - pensò - le nuvole iniziano a diradarsi...Dannazione.
Fette di azzurro scuro ora si intravedevano tra l'arancio e il rosa delle nuvole, a cui l'aria aveva dato forme striate e turbinose, formavano cerchi e strisce che all'orizzonte apparivano sempre più sottili.
In quel momento un alito di vento smosse le chiome degli alberi nel suo giardino, un'unica foglia, completamente gialla tra un mare di foglie verdi, si staccò e svolazzò sino a toccare il prato.
Un piccolo gatto ci si buttò subito sopra, pensando di essere una tigre e di aver acchiappato chissà quale preda. Ma appena la toccò si prese paura, fece un salto e corse via velocemente, a Franca parve di udire un seccato "miao".
C'era stato un tempo che non era poi così lontano, ma che ora a Franca pareva appartenere ad un'altra vita, in cui le stagioni condizionavano la sua esistenza. Si sentiva oppressa dall'inverno, intristita dall'autunno, speranzosa in primavera e felice in estate. Negli ultimi tempi si era accorta di quanto fosse sciocca. Era uno schema troppo rigido. Era finita per diventare così: non era più lei a decidere, seguiva semplicemente lo schema. Incredibile quanto fosse fragile e vittima di se stessa, nemmeno si rendeva conto di essersi suggestionata da sola.
"Cretina..."
Osserva ancora le strane geometrie delle nuvole e pensa. Qualcosa è successo, qualcosa mi ha cambiata. Chi mi credo di essere? Sono una tutta d'un pezzo, io! Perchè il bisogno di aggrapparsi a quel modo allo scorrere del tempo?
Ogni uomo ed ogni donna ha bisogno di certezze ed il tempo pare scorra inesorabile.
La poesia di quella foglia gialla, i brividi di questo freddo un po' frizzante, dicono solo una cosa, che forse avrei potuto scoprire prima.
Credevo di essere troppo piccola per prendere in mano la mia vita.
"Infatti lo sei", è una nuvola a dirglielo, che dall'alto, enorme com'è, sembra riempire tutto il cielo.
"Ma la tua vita non la devi mica prendere in mano! La tua vita è una goccia in un fiume, come la metti adesso? Il fiume è il tempo, e che sia ruscello o sia cascata, tu ci sei dentro, e siete tutt'uno!"
Era il riflesso del sole negli occhi, doveva essere l'estate, era un rumore di foglie secche ridenti sotto le scarpe, questo l'autunno, il naso arrossato e le sciarpe di lana a colori, il gelido inverno, la primavera fatta di stordimenti da profumo.
D'un tratto immaginò il suo corpo come un'onda, come un vaso sul tornio, sognò correnti che la facevano viaggiare ed infrangere, mani amiche che le davano nuove forme, pensò che a volte il fatto di avere una pelle era un bel vantaggio. Perchè? Bé, si ha presente l'uovo senza guscio, la cellula senza membrana, una bellezza all'interno, ma un vero peccato a vederla versata sul pavimento.
Dentro era liquida, un universo liquido, e prendeva la forma del suo contenitore, per questo ogni persona era diversa dall'altra, per questo a volte si è belli anche fuori.
"Non si potrebbe piangere se dentro non si fosse un poco liquidi, giusto? E se si mettono insieme tutti gli uomini di questa terra si ottengono altri tre oceani e le terre emerse vanno tutte a farsi benedire! Sì sì, senza dubbio, la pelle è una bella trovata."
"Continuare a starsene seduta sul marmo freddo del davanzale, stringendosi sempre di più nel golfino. Ecco, è tutto qui quello che mi riesce di fare ora che abbiamo constatato che dentro sono una molliccia pozzanghera?"
"Forse non mi serve a niente, ma quando uno si sente abbandonato, cosa deve fare?"
Il gattino passò di nuovo sotto i suoi piedi, lungo il muro della casa, scrutando sospettoso da lontano la foglia che prima l'aveva aggredito.
- Micio, è solo una cavolo di foglia! - esclamò Franca. La bestiola alzò la testa confusa, e fece miao.
- Miao miao! Sempre le stesse risposte...sei così loquace micetto mio! - gli disse.
- Che dici, vengo giù lì con te? - il gatto sgranò i felini occhi verdi, la pupilla era una linea nera.
Appoggiò i polsi sulla pietra, una piccola spinta e...hop!
Franca assaporò una frazione di quel fiume di tempo, la foglia, la nuvola, l'arancione, il freddo, poi la forza della terra l'attirò egoista verso di sé.
Così Franca si aprì e si dissolse, rovesciandosi, riempiendo il marciapiede di liquido. Sì, rosso.






lunedì 1 agosto 2011

domenica 22 maggio 2011

Lei

Era un mucchio, un mucchio di cose. 
Soprattutto, era un mucchio di colori e di tanti piccoli oggetti. Oggettini, cianfrusaglie, piccoli accessori. 
Non saprei descrivere in che modo lei assomigliasse a...un non so che...era un corpo, sì, di carne liscia, rosea e morbida, agile nei suoi movimenti, compatto, deciso, forte. 
Era quello che si suol definire una persona, un essere umano nel vero senso della definizione, aveva tutto ciò che doveva avere una donna tutta di un pezzo. 
Dava l'idea di essere inespugnabile nella sua femminilità contorta, un'armatura fatta di pelle, fatta di pensieri e di valori. Traspariva anche dai capelli, dalla sua chioma folta e fluente, sempre di un colore diverso, ma sempre con quell'aspetto nodoso, simile a corteccia d'albero. Che fossero legati in acconciature dalle strane forme o lasciati sciolti sulla schiena, avevano sempre un loro carattere. 
E poi, tutti intorno, come fossero degli strani prolungamenti di lei, estroflessioni del suo essere, vi era ogni sorta di cosa. 
Portava mille cose ai polsi, al collo, alle orecchie, nei capelli, sulle scarpe. Addosso aveva di tutto, grande, colorato, morbido, estroso, esagerato, perverso, irrazionale, spinto, provocatorio. 
Era una bomba, era pericolosa, era una delle cose più fantastiche a vedersi. Ti stregava, ti incuriosiva e infine ti sorprendeva per davvero. La potevi percepire mentre pensava, sentivi una musica, un ronzio, forse mescolato a quello proveniente dalle cuffie che portava nelle orecchie, grandi, ormai parte fissa della sua figura. Rideva forte e sguaiatamente, muoveva le mani in una danza deliziosa, devastante, insieme armoniosa e terribilmente disordinata, era un miracolo vedere in quale meraviglioso modo le sue dita, con le unghie di tutti i colori, impugnassero precoci e disinvolte una sigaretta, le sue labbra alla frutta sporgere in fuori, vedere il suo volto annegare in una nuvola di fumo sottile, gli occhi dalle chilometriche ciglia riemergere a stento, quasi soffocati dalla folata di nicotina e catrame. 
Per me era l'universo, era tutta. Tutta lei era l'universo. 

Non ero degno di amarla.



venerdì 13 maggio 2011

Cannot stop now, because it will never end

- Ci era già stata tante volte in quel posto. Ma quella sera era speciale. Era la sua serata. Ci teneva tanto ad essere presente, e ne era entusiasta.
Ci fu da aspettare un po'. Poi si spensero le luci.
Quando la musica iniziò, pensò che era davvero diversa da quella che era abituata a sentire. I bassi erano forti, una canzone pop, parecchio famosa, le parve di ricordare.
Eccola, ad un tratto apparve Lei, uscì da una quinta del palco. Cavolo. Aveva una minigonna. Addirittura. E i capelli non erano nemmeno raccolti, ma giù giù, lunghi e scuri sulla schiena.
Si muoveva a ritmo e faceva passi che lei non conosceva. Di primo impatto restò basita.
Poi però, Oltre i movimenti, le luci e i capelli, vide apparire trionfante un sorriso grande, con tutti i denti in mostra, di quelli che non faceva spesso, contagiosi da morire.
Capì che era quello che importava, rise e a fine esibizione saltò sulla sedia come una matta per applaudire.
Non vedeva l'ora che uscisse da dietro il palco. Dopo un po' la vide comparire, si fece spazio a gomitate tra le persone che la intralciavano. Si gettarono le braccia al collo e notò che aveva del trucco sugli occhi, le stava bene, ma non la faceva più sembrare tanto Lei.
Fu un abbraccio esuberante, sudato e pieno di brillantini.
Oggi non ricorda esattamente ogni parola di quella sera, ma una frase in particolare, quella, le è rimasta impressa:
"Brava Niky, è il tuo primo saggio!"


- Era una di quelle macchine fotografiche che avevano ancora il rullino. Di quelle che dovevi portare le foto a sviluppare dal fotografo. Che la foto, vedevi se era venuta mossa o centrata almeno il giorno successivo, non pochi istanti dopo lo scatto.
Una gita piccola, di quelle che si fanno alle elementari, senza andare troppo lontano, a vedere uno spettacolino al Piccolo Regio. 
Quanto le piaceva (e le piace tuttora), l'ingresso del teatro Regio? Con quell'entrata "a pettine", così lo chiamano, perchè ha tutte le porte in fila. Le colonne di marmo, il pavimento lucido e tutti quei vetri, alle spalle, che salivano in altissimo.
"Dai, mettetevi in posa!"
Sono passati circa mille anni dal tempo della foto, ma quel momento è ancora intrappolato lì.
Una foto che oggi è vecchia, incartapecorita, un po' sgualcita, ma che sopravvissuta al trasloco è ancora attaccata al muro, con un pezzetto di scotch. 
Tre bimbe in un abbraccio, sguardi ingenui ma sinceri.
Per quanto Jojo e Zina occupino un degno posto d'onore nel suo cuore, a tutt'oggi, lo sguardo a cui più tiene, è quello dietro gli occhialetti di Giò.


Scrivere mi riesce meglio che parlare, penso. Non so se per una qualche forma di codardia o di eccessiva goliardia. 
"Non abbiamo tanto bisogno dell'aiuto degli amici, quanto della certezza del loro aiuto."
Non l'ho detto io, ma un certo Epicuro, vissuto una manciata di secoli prima di me.
Poco importa che sia vecchio. Mi piace, ha un senso. E io ci credo.


Quest'anno è stato abbastanza un devasto a scuola.
Non so se si abbia presente quella sensazione nauseante che si ha quando si è praticamente del tutto demotivati. Quando si perde quella voglia magnifica, quella che si ha quando si hanno sedici anni ed il cervello come una spugna.
Tutto in fumo. Tutto sgualfo, uno smacco, uno sbrodolamento. Una delusione.
Persone che mi hanno chiuso, privato di quegli stimoli essenziali che fanno andare avanti, nessuno mi ha considerata realmente, dando realmente valore al mio lavoro. 
Mi sono trascinata avanti nella mia mediocrità, mi accontenterò questa volta, anche se odio sapere che potrei pretendere molto di più da me stessa, ma che lo si creda o no, c'è chi volendolo oppure no, me lo ha impedito. Sono andata avanti, bene o male, con supporti di varia natura, la maggior parte di natura inesistente. Mi ha incoraggiata un unico obbiettivo, ovvero il pensiero idilliaco del triennio che mi aspetta a settembre. Sarà meglio, spero, e se non lo sarà, quantomeno la fortuna girerà. 
Biennio insulso.


Tuttavia, al di fuori di quel pessimo ambiente, ora sono ad un punto culminante.
Sono in un momento in cui i progetti su cui ho lavorato un anno intero stanno felicemente giungendo a  compimento. 
A volte, le persone, per quanto attorniate da chi vuole loro bene, e cerca in qualche modo di offrire aiuto, hanno bisogno di realizzarsi da sé. Intendo dire, se alla lunga non si hanno soddisfazioni da se stessi, si sta male. Qualcosa manca. Ma è un vuoto grande. Realizzarsi vuol dire crescere, ma anche conoscersi. Soprattutto ora, che siamo tutti ancora in erba, che la quotidianità quantomeno non ci ha ancora risucchiati del tutto. Che abbiamo ancora un po' di sangue che circola. 


Così sono andata a danza. Quattro giorni su cinque, ora anche nei weekend. 
Ho ballato, bello e dovrò ballare tantissimo. 
E' un impegno che ho preso, ma senza secondi fini. E' un appuntamento con me stessa, perchè più lo faccio e più ne ho voglia. E se aumento la dose aumento la voglia.
Perchè quella, la danza, in quell'aula col pavimento di legno e degli stupidi specchi, è la sola cosa che veramente mi permetta di esprimere me stessa interamente, senza compromessi. 
E se io sto bene con me stessa, ve lo assicuro, sono molto meno insopportabile agli occhi della gente.
Così dopo millemila prove massacranti ed esami, arriva quella lucetta che ti dice: eccola, la tua soddisfazione. 
Arriva la borsa di studio. Arriva una cosa in più, un weekend di musical con la professoressa Cava. Arriva i ruolo nel saggio (4 e 5 giugno se può interessare). Arriva il concorso, domani, per l'esattezza.
Ecco cosa vuol dire. Tu, te la sei sudata da sola, solo con la tua passione e la tua fatica.
E' importante. 


Solo un anno fa non sapevo far suonare una corda.
Ed ora strimpello canzoni.
Ho iniziato quest'avventura aggrappandomi ai ricordi di una storia un po' troppo assurda e travagliata per essere realizzabile. Non so per quale strambo motivo un pezzo di legno e corde di nylon mi aiutassero a curarmi da quella zavorra risalente all'estate, che mi ostino ad amare ancora.
Ho imparato parecchio, in poco tempo. Al venerdì, unico giorno della settimana in cui non avevo danza.
Quando andavo a lezione all'inizio, tornavo a casa che era già buio. Poi ho imparato sempre più cose, e adesso, quando torno a casa, c'è ancora il sole alto. 
Il 25 di maggio faccio il saggio, se può interessare, anche questo. 


Infine, io devo scrivere. 
Lo devo fare e basta. 
Indigestione di coscienza. Scrivere è come infilarmi due dita in gola e vomitare. Ma è un'esigenza.
Il giornalino del liceo, per quanto snobbato o ritenuto di poco conto, ha rasserenato molte mie giornate.
L'unica cosa bella di quella scuola, che mi ha fatto conoscere quelle poche persone sulla mia stessa lunghezza d'onda. Non pensavo mai, ma sono stati loro a trovarmi.
Così ci siamo buttati in questa avventura di capiredattori. 
Abbiamo lavorato davvero davvero tanto. E ogni mese sfornavamo 60 e più pagine di scritti per tutto il liceo.
E il 9 giugno usciamo con un inserto di quattro pagine sul Risveglio. 
Cazzata, no? No, cristo. E' grande, considerato da dove partiamo.
Dobbiamo scrivere il doppio ovviamente, anche di notte, ma l'importante è che ce la facciamo.
Poco importa che ci leggano in pochi a scuola.
Ce la facciamo sempre. Anche partendo da un settimanale di provincia. 


Tutto, ma questo no. Non permetto che un social network rovini i miei rapporti (pochi) con la gente.
Soprattutto se sono sufficienti un link ambiguo, un post in bacheca o un aggiornamento di stato frainteso.
Vivevo lo stesso anche prima di mettere la mia vita in vetrina.
Troppi amici, troppo poca amicizia.
Quindi mi dispiace, ma io me ne tiro fuori.


Dopo aver procurato questa straziante noia ai miei venticinque lettori con la schizofrenica storia della mia vita, rimanderei a Epicuro, qualche riga più su.
Non è non sentirsi, non è non vedersi. Essenzialmente, non è cambiato granché.
A eccezione di quell'idea nel cervello, quella che anche se non siete di fronte ai miei bulbi oculari io abbia la certezza esatta che nel mondo c'è una qualche fonte inesauribile di amore, e quella fonte siete voi.
La sicurezza di un supporto che ho nella testa, che ormai vi senta sulla pelle perchè ci completiamo, perchè le persone si trovano a vicenda su quasi sette miliardi, si legano l'un l'altro, e l'amicizia cazzo non va spiegata, perchè se no la si uccide!
Ma non mi riferisco a ieri e all'altro ieri, ma all'eternità, all'universo, perchè che mi odiate oppure no, che vi dia sui nervi o altro, io non posso fare a meno di perseverare nella mia certezza che non vorrò mai tanto bene ad altre persone rispetto a quanto ne voglio a voi. E su questo non si discute, chiaro?
E non mi interessa se ora vi farò incazzare, perchè uscire il sabato pomeriggio è molto bello, scambiarsi sms è molto bello, ma scambiarsi uno sguardo dall'alto del palco o scattare una fotografia in un'occasione speciale, ve lo giuro, è tremila volte fottutamente meglio. 
E so che lo sapete. 
Non mi rispecchio nella maggior parte della gente, non la capisco e preferisco starne alla larga perchè faccio solo danni. Voi siete le sole con cui posso togliermi gli stivali di piombo, andare su un terreno stabile che sento mio.
E faccio presente, che se volete delle scuse, sia come vi pare, non è certo un problema per me porvele, ma non provate ad accusarmi di avervi dimenticate, messe da parte, o in secondo posto. 
Esigo che voi sappiate che quando io vado a ballare, inizio a suonare o di notte mi metto a scrivere, lo faccio con tutto il mio cuore, perchè solo con la passione esiste la bellezza. E io vi ho nel cuore.
E quando ballo, suono o scrivo, racconto anche di voi. 
Cazzo.
Vi amo cazzo. 



mercoledì 20 aprile 2011

-

Capito che me ne vado? Me ne sto andando, stavo partendo già prima, da tutti voi, non ci sono mai realmente stata probabilmente, il bello sta in questo. Forse essere un fantasma, un soffio d'aria, un profumo si spera. Che almeno lascia una scia della sua debole presenza. Qualcosa a cui piace andare e venire, magari sparire, tra i fili d'erba di un prato, perchè è piccola. Una cosa che si espande, come l'universo che non lo puoi concentrare in una bottiglia, guardarlo dal vetro. Sei tu e ci sei dentro, in un grande contatto perpetuo, che non richiede spiegazioni, non fare domande, ci siamo tutti. Da qualche parte, Oltre l'arcobaleno.



giovedì 7 aprile 2011

Petali d'acacia

Quella sera sarebbe stata perfetta. Doveva esserlo. Era da giorni che ci pensava. 

Di solito non era un tipo molto riflessivo, anzi, era molto bravo a prendere la vita in mano dandole la forma che preferiva. Era bravissimo a superare ogni cosa, era forte e soprattutto non sopportava che i problemi avessero la meglio su di lui. 
Lei sarebbe arrivata a minuti. Minuti oppure ore, gli sembravano uguali, gli venne il dubbio che le lancette fossero incollate, che non girassero davvero. Andò persino a controllare più da vicino che stessero realmente girando. 
Troppo tempo da solo per mandare tutto all’aria. Era grande ormai, come diceva sua madre. 
Troppo preso dai suoi studi e dalla sua carriera per poi accorgersi che gli mancava un pezzo essenziale. Aveva sentito un certo buco in un giorno di primavera, in un parco dove c’erano tantissime piante in fiore, fiori bianchi ovunque, petali piccoli come gocce d’acqua che piovevano giù a terra, un profumo intensissimo di miele. Il buco aveva iniziato a perforargli lo stomaco quando aveva notato che stava camminando con la sua ventiquattrore e il suo bell’abito grigio, mentre intorno a lui scorrevano sorrisi, uno dopo l’altro, spesso uno legato all’altro, mano nella mano. Aveva guardato nella sua di mano, aveva visto solo uno stupido oggetto rettangolare, e il suo sorriso era tappato lì dentro, chiuso nella valigetta. 
Non aveva nemmeno un gatto. 
Forse se n’era accorto tardi. O forse ancora no. Aveva trent’anni, insomma. 
E poi il giorno dopo aveva solo alzato lo sguardo. Era bastato quello per vederla. La sua Kameko. Da quel giorno si era accorto che era sempre stata sua. Stava nella scrivania di fronte, era stato proprio un ebete a non guardare mai oltre il monitor del suo computer. 
Lei invece...Oh, lei sì che sbirciava spesso al di là. Quella fronte di ragazzo corrugata, che pesava su due occhi che non erano più che due fessure, neri come due noccioli di susina, che correvano senza distrarsi mai da un numero all’altro, da una tabella all’altra, ignorando il caos dell’ufficio. 
Quella mattina per Kameko era stata una sorpresa vedere quegli occhietti incrociarsi con i suoi, per una volta. 
Le otto meno cinque. Dai. Su. Più veloce. 
Pullover verde. Forse il verde non andava bene. Gli dava un aspetto poco serio. 
“Stupido, non è una riunione di lavoro! Il verde sarà perfetto...o magari odia il verde, magari da piccola ha subito un trauma gravissimo legato al colore verde e il solo vederlo...” 
Il campanello. 
Sobbalzò davanti allo specchio e rise di se stesso. Percorse lo stretto ingresso dando un ultima occhiata alla piccola tavola accuratamente preparata per due, semplice e disinvolta, ecco. Aveva messo al centro una candela, di quelle basse, di cera colorata, e qualche fiore, rametti d’acacia, ne aveva una pianta nel piccolo giardino dietro casa. 
Aprì la porta assaporando ogni gesto. 
- Ciao - “sei meravigliosa”. Pronunciò solo il “ciao”, la seconda parte preferì lasciarla riecheggiare nel suo cervello per un po’, senza dirlo ad alta voce. 
Aveva i capelli mossi e castani, e aveva sempre trovato che, per essere a mandorla, i suoi occhi fossero molto più grandi di quelli di tutte le altre donne. Più luminosi, s’intende. 
Lei era stata più intelligente (ovviamente) si era vestita di bianco, non come lui, verde. Puah. 
Avrebbe dovuto vestirsi di bianco anche lui. 
Si sedettero a tavola. Era tutto prontissimo, più pronto di così si moriva. Non restava che iniziare. 
Notò che i suoi orecchini, sottili e pendenti, sembravano fatti di legno, forse lo erano. Quando scuoteva la testa, anche leggermente, emettevano lo stesso suono delle canne di bambù col vento. 
Si sentiva radiosa. Non sapeva se lui lo avesse notato o no, quanto era nervosa, ma felicissima nel contempo. Solo, forse il bianco le sbatteva troppo in faccia, forse un jeans e una maglietta colorata sarebbero stati meglio. “Non ho mica fretta, perchè mi vesto già come una sposa?” 
- Vuoi da bere? - gli chiese distraendola da quei pensieri superflui. 
“Non parlare di lavoro, non parlare di lavoro....” 
- Sei passata per il parco in questi giorni? – 
- No, ho preso la metropolitana... – 
- Allora una di queste mattine ci andiamo insieme – 
Le avrebbe mostrato i fiori. Tutti quei fiori bianchi come il suo vestito, che tra l’altro, stava benissimo con la sua carnagione. Avrebbe dovuto portarcela prima che il vento facesse cadere tutti i petali, lasciando spazio alle foglie. Verdi. 
Ne trovarono tante di cose di cui parlare. Era un miracolo che si fossero trovati. Lo pensavano entrambi, ciò li riempiva di gioia. 
Poi si erano presi la mano. Se l’erano stretta in silenzio, e si erano guardati giù, giù in fondo agli occhi, dentro quei noccioli di susina. Lei sentiva il cuore scoppiarle nel petto, credeva di morire; lui nascondeva i brividi. Incredibile come si sentissero così inesperti, “grandi” com’erano. 
Ma la calamita si era attivata, l’uno assaporava le paure e le emozioni dell’altro. 
Non si erano nemmeno accorti di essersi avvicinati tanto. Stavano assaporando quell’ultimo luccichio che si vede prima che le labbra... 
La luce tremò e la lampada si spense. Di colpo. Era calato il buio. Si distrassero e si guardarono intorno confusi. Era saltata la corrente, di sera tardi. Cavolo. 
Da dove proveniva quel tintinnio ora? Entrambi diressero l’attenzione verso la tavola. I bicchieri di vetro, appoggiati uno vicino all’altro, vibravano e si toccavano tra loro emettendo quel suono. 
Realizzarono con orrore quello che stava per accadere già prima di udire quel rombo terrificante, quel ruggito spietato sotto i loro piedi, giù nel cuore della terra. 
Venne il momento che i quadri alle pareti tremarono e si staccarono, i vetri andarono in pezzi.
Alcuni libri caddero giù dalla libreria, si aprirono sul pavimento, un sull’altro, continuando a tremare. Gridare non serviva, il tuono sovrastava tutto. 
Era pietrificata quando la scosse violentemente per un braccio, trascinandola con troppa forza verso una via di fuga. La grande libreria dondolò un’ultima volta per poi ostruire definitivamente l’ingresso. Inciampò e cadde trascinando anche lei. Non riusciva a rialzarsi e Kameko piangeva. 
Così si fece forza, barcollando la tirò a fatica in direzione della portafinestra, quella che dava sul giardino. Gli sportelli della cucina si aprivano da soli e i piatti si frantumavano a terra. 
Non era possibile. Ora basta, deve finire! Sono ore che trema! 
Minuti oppure ore, gli sembravano uguali, gli venne il dubbio che le lancette fossero incollate, che non girassero davvero. 
Ma l’orologio era sparito. Probabilmente i suoi pezzi erano sparsi sul pavimento insieme a tutto il mare di altra roba. 
- Dobbiamo correre, ti prego Kameko! - la sollevò malamente, forse le stava facendo male. La strinse assicurandola al suo corpo e si mosse più veloce che poté, per quanto possibile, verso l’unica via di salvezza. Aprì la porta a vetri, le crepe erano paurose, si sarebbero frantumati da un momento all’altro. Fece un passo incerto verso il piccolo giardino, mantenendo l’equilibrio a stento. 
Ma l’albero stava già cadendo. 
Un ultimo grido che si confuse nel caos, due corpi avvinghiati, verde e bianco, come le foglie e i fiori del parco, i fiori di acacia, come la pianta che li aveva appena travolti, polverizzando il vetro e le travi del soffitto, spaccando i muri di quella casetta che a resistere ci aveva provato. 
Una nube di polvere al sapore di sangue, calce, schegge e lacrime. 
Tremò ancora pochi secondi, poi si placò. Il tempo di lasciar depositare il pulviscolo. Di sentire quel silenzio angosciante, provocato dal tuono la cui prepotenza aveva messo a tacere ogni cosa. 
Qualche leggero petalo di acacia si permise ancora di svolazzare nell’aria, prima di confondersi con le macerie, prima di posarsi sulle rovine di una casa e di due esistenze appena intrecciate, che non erano più. Due corpi che ancora si stringevano la mano senza vita. 
Due corpi, cento, mille, duemila. 

 

martedì 5 aprile 2011

Hands and Mouths

Mah! Chiediti perchè! 
Perchè cosa? 
La bocca, le mani... 
Ok, stai impazzendo del tutto questa volta... 
Uffa, non capisci mai niente. 
La bocca, le mani, i capelli, le unghie...di cosa mi vuoi parlare, anatomia? 
In realtà no. Volevo parlarti di una cosa che sicuramente riterrai scontata, però mi sa che a forza di dare scontate le cose le diamo per fatte e va bene così. 
La tua estrema chiarezza mi stupisce ogni volta di più. 
Sì certo, divertiti col tuo sarcasmo. Pensavo solo che sarebbe bello mettere alla prova la gente
Ossia? 
Ossia che sarebbe bello vederli amarsi, però senza la bocca e senza le mani. 
Truce. 
Secondo me sarebbe carino. 
Carino? 
Ma te li immagini? Tutti gli innamorati che non possono toccarsi, nemmeno scambiarsi tutti quei baci! Esilarante. 
Ovviamente. 
Dici che sarebbe impossibile come idea? 
Mh, abbastanza, fai un po’ tu... 
Senza mani e senza bocca non ci si ama? 
Eh no. 
Cavolo. 
Delusione? 
Un po’. 
Solo tu ti fai di certi problemi. 
Almeno IO me li pongo. 
Ma insomma, che cos’hai...? 
Solo...io pensavo si amasse con gli occhi...o almeno col cuore. 
Ma lo vedi che non ti spieghi!




venerdì 18 marzo 2011

Ho una tazza come psicologo

Prendere una tazza, di quelle di ceramica spessa e colorata.
Far scaldare dell'acqua e poi mettercela dentro.
Osservare il filo di vapore che si libera nell'aria, sollevare la scodella con entrambe le mani, sentirne il calore.
Credo che pochi ci possano capire come può una tazza di tè. E' come un'amica, una mamma.
Il filtro chiuso in una bustina colorata, scelto tra una serie di colori diversi, a seconda della preferenza.
Il rumore che fa la carta quando si strappa, il filo che si srotola.
Ho sempre adorato il profumo del tè. Mi piace intenso. Di quelli che portano lontano.
Penso al calore che passa attraverso le mie mani, che mi sale su fino in cima, che scioglie qualsiasi cosa ci sia di ghiacciato, da qualche parte, a far male.
Nella penombra di un tardo pomeriggio, non accendo luci per non disturbare me stessa, per assecondare un pochino la mia stanchezza. Forse per nascondermi da ciò che mi tormenta, forse semplicemente perchè dormendo poco mi bruciano gli occhi.
Il filtro immerso nell'acqua subito si inzuppa, si affloscia e va a fondo, tutto si tinge di un rosso sbiadito. E' un colore così di compagnia, così buono, così...comprensivo. E' il colore della tua casa, il colore di un libro, il colore di un LP nel giradischi.
Penso ancora, penso che mi piacerebbe viaggiare per vederne anche altri di quei colori come quello del tè, di quei rossi accesi, arancioni scuri, colori della sabbia e delle spezie, colori che fanno caldo, quelli del sole nel cielo talmente limpido da sembrare dipinto. Cambiare un po' quest'aria ormai stagna e viziata, cambiare un po' quest'aria impregnata di noia, grigia, al contrario del tè, che ora è sempre più scuro, sembra quasi nero.
Cadono due o tre gocce ancora, fanno increspare la superficie del liquido nella mia tazza grande.
Zucchero, quello alla cannella, regalatomi da una persona che lo ha comprato in un posto lontano, non ne troverò di uguale quaggiù. Lo uso con parsimonia, perchè mi piace tantissimo. Granelli grossi, dorati, che tintinnano sul cucchiaino. Sprofondano e scompaiono in quel nero, si sciolgono veloci, mentre li faccio vorticare col cucchiaino.
Esce ancora vapore, ci avvicino il viso, sa di buonissimo. Al primo sorso mi piace scottarmi, è quasi di rito, non imparerò mai. Lo sorseggio tranquilla, mentre un po' mi guardo le mani, un po' guardo fuori dalla finestra, mentre il sole sta tramontando e già la sera ha fretta di scendere.
Il rosso del tramonto, il rosso del tè, il nero della sera, il nero del tè.
Sto meglio. Quella tazza è il mio psicologo personale. Solo lei sa dedicarmi quel momento della giornata così intimo, così familiare. Quel calore speciale, che spesso non trovo altrove.

sabato 26 febbraio 2011

People broken into two

Sei mai stato rotto in due? 
Rotto in due? Ma che dici? Sono qui, integro! 
Beh, fortunato te 
Perchè, tu sì? 
Hai voglia 
Spiegami un po'... 
Succede che il cuore è distratto 
Oh, adesso sì che è chiaro... 
Intendo dire che il cuore è come un bambino...vuole una cosa, la ottiene, poi si stufa e ne cerca un'altra abbandonando quella vecchia, che tanto a sua volta era stata desiderata... 
Mica tante novità...si sa che gli uomini non sono mai contenti. 
Sai, non sono tutte così le persone, credimi. 
C'è da sperarlo. 
Infatti...diciamo che sono loro, le persone rotte in due, quelle differenti dal resto. 
Il loro cuore sì, è distratto come quello degli altri, ma purtroppo con la differenza che nel desiderare una cosa o un'altra, si spezza, non abbandona mai completamente ciò che bramava prima.
 
Allora direi che sono rotte più che in due. Nella vita puoi desiderare tante di quelle cose da consumarlo tutto, il cuore. 
Non esattamente. Il cuore si dividerà sempre e solo in due, non a causa dell'oggetto del desiderio, piuttosto si spaccherà tra il prima e il dopo, tra il giusto e lo sbagliato. 
Ma quindi restano così rotte per sempre? 
Temo di sì. Almeno fin quando il destino non decida di dar loro definitivamente ciò che li rende felici. 
Dici che è un bene il fatto che io sia ancora integro? 
Forse. Ci penserei.




lunedì 14 febbraio 2011

La stanza rivestita di specchi.

E' un esplosione dentro il petto.
E una mano che taglia l'aria, un socchiudere gli occhi, per non sentire lo sforzo, per sentire l'amore.
Per piangere, piano, come ora.
Le pelle delle scarpette che si tende in un suono buffo, poggia il piede sul pavimento di legno chiaro, quel pavimento fatto di nuvole.
Quel gesto che sempre più si avvicina alla perfezione, quel tormento nel cuore, quella dolce disperazione nel tentare di salire sempre più verso il cielo, di tendere le braccia all'infinito, di staccarsi da questo mondo cattivo e raggiungere la bellezza estrema racchiusa...in un passo.
Vorrei morire, morire ora in quest'aula rivestita di specchi, vorrei morire dentro le mie punte. Vedere il mio corpo così com'è, rimuovere tutto ciò che non serve, non servono abiti, non servono gioielli, non servono addobbi di genere alcuno, persino i miei capelli lunghi sono superflui, un intralcio. Li raccolgo minuziosamente, la mia testa è rotonda, vorrei avere un profilo che apparisse aggraziato, lascio libero il mio collo, libero di piegarsi all'indietro, pulito, preciso. Gli specchi non appaiono più spietati, sono amici cari, compagni.
Sei tu, ridotta ai minimi termini, sei essenziale, ora devi solo guardare.
I tendini, i legamenti, i muscoli che si muovono sopra le ossa, morbidi, con armonia, la schiena che si piega in curve perfette, l'interpretazione espressa dalle dita di una mano che compiono un respiro, lo scatto della tua testa, il salto verso il cielo!
Bella, bella, bella! Fa piangere da quanto è bella! La semplicità dell'impossibile, la tecnica che si evolve, diventa spirito, tutto ciò che sei, è questo, questo il modo! Di dire al mondo chi sei, di dire a te stessa chi sei!
Voglio morire, morire danzando, e danzerò in cielo, con gli angeli e la luce e se andrò all'inferno poco importa, danzerò anche all'inferno.
Sento il mio cuore che non è lontano da me, non è freddo è ghiacciato, si è fuso con me, io sono il mio cuore, e mi viene da sorridere nelle mie stesse lacrime, perchè mi sento una luce, una luce dentro la musica.
Male, che male ai piedi! Adorerai quel dolore maledetto, sarà la tua droga! Avrai bisogno di sentire il dolore salirti spietato su per le gambe e dentro la pancia, lo inghiottirai dietro un sorriso, mentre vedrai il tuo collo, le tue spalle brillare di sudore, senza perdere quella compostezza sottile, quella grazia docile, quel timore sempre nascosto di non riuscire. Lo sentirai insinuarsi nella tua anima e farla diventare dura e lucente come un diamante. Ti servirà nella vita.
Ma tanto che importa, io morirò, in quella stanza rivestita di specchi.

venerdì 28 gennaio 2011

Are we human?

Secondo te, perchè la gente si odia? 
Ovvio, è più comodo, non credi? 

Più comodo? 
Sì, più comodo...come la poltrona e la sedia pieghevole... 
Bah... 
Non ci credi? 
Oh certo, sei tu il genio. 
Perdonami, ma non pensi sia più semplice fare del male? 
Nel mondo ce n'è tanto di male. 
Esatto, vedo che capisci al volo. 
Vuol dire che l'uomo è un pigro? 
No, tutt'altro... 
Allora perchè non impegnarsi ad amare, scusa... 
Quella non è pigrizia, è stoltezza. 
Vuoi dire che chi non ama è stupido? 
Chi non ama è perso. 
Se così fosse vorrebbe dire che almeno metà del mondo brancola nel buio... 
Non è forse così? 
In effetti...dici che se mi perdessi diventerei stupido? 
Perdersi significa non trovare più nulla in cui credere. 
La colpa non sarebbe tutta mia però... 
Hai detto tu stesso che nel mondo c'è tanto male. 
Sarebbe colpa degli altri? 
Accidenti, solo degli altri? No, non tutta...sarebbe in parte colpa degli altri... 
Allora sono io che ho qualcosa che non va. 
No, sei solo un essere umano, è la tua unica colpa.