venerdì 28 gennaio 2011

Are we human?

Secondo te, perchè la gente si odia? 
Ovvio, è più comodo, non credi? 

Più comodo? 
Sì, più comodo...come la poltrona e la sedia pieghevole... 
Bah... 
Non ci credi? 
Oh certo, sei tu il genio. 
Perdonami, ma non pensi sia più semplice fare del male? 
Nel mondo ce n'è tanto di male. 
Esatto, vedo che capisci al volo. 
Vuol dire che l'uomo è un pigro? 
No, tutt'altro... 
Allora perchè non impegnarsi ad amare, scusa... 
Quella non è pigrizia, è stoltezza. 
Vuoi dire che chi non ama è stupido? 
Chi non ama è perso. 
Se così fosse vorrebbe dire che almeno metà del mondo brancola nel buio... 
Non è forse così? 
In effetti...dici che se mi perdessi diventerei stupido? 
Perdersi significa non trovare più nulla in cui credere. 
La colpa non sarebbe tutta mia però... 
Hai detto tu stesso che nel mondo c'è tanto male. 
Sarebbe colpa degli altri? 
Accidenti, solo degli altri? No, non tutta...sarebbe in parte colpa degli altri... 
Allora sono io che ho qualcosa che non va. 
No, sei solo un essere umano, è la tua unica colpa.

giovedì 6 gennaio 2011

La foto controluce

Correva sulla spiaggia. In quel luogo del mondo dimenticato da tutti, completamente deserto, quella sabbia che sembrava farina, si sollevava in nuvolette di polvere dietro di Lei, che ad ogni passo la prendeva a calci. Ora sul bagnasciuga, l’acqua del mare a quest’ora è tiepida, ci salta, schizzandosi le caviglie e gli stinchi, si inzuppa i pantaloncini e la t-shirt. Poi torna tra la sabbia, che si appiccica laddove l’acqua salata ha bagnato, non si leva per un bel po’, finché l’ultima goccia non viene asciugata dal vento, lasciando sulla pelle uno strato sottile di sale.
Pensa che il cielo è bello quando è di quel colore violetto più in alto, e poi arancione più in giù, nel punto in cui quel cerchio infuocato si sta tuffando nell’orizzonte, giù sotto quel velo luccicante e increspato che è il mare. Però non è a questo che deve pensare, così scuote con violenza la testa, agita i capelli secchi dal sole, emette un grido un po’ isterico e si butta di nuovo nella sua corsa, evitando i sassi levigati dall’acqua e i rami portati dalla marea, resi bianchi come ossa dal sale.
Ricorda che una volta era capace a fare la ruota. Ci prova e sì, ci riesce ancora, però non atterra in piedi. La sabbia le si infila sotto i vestiti, una cosa che le aveva sempre dato fastidio. Però adesso basta, così si sdraia completamente su quell’infinità di granelli e muove le braccia e le gambe lasciando l’impronta di un angelo. Sulla sua testa c’è un gabbiano che passa e grida dal becco parole che anche lei vorrebbe capire. Così si rialza mentre il vento si fa più forte, si alza in piedi rivolta al mare, spalanca le braccia più che riesce e grida forte, grida parole vuote, verso il gabbiano che è già una virgola lontana nel cielo, verso il cielo stesso, che tanto è grande che non lo si vede finire. Un soffio di aria le tira i capelli, glieli scaraventa all’indietro e si porta via qualche granello di sabbia, le gonfia la maglietta che è larga, asciuga l’acqua del mare. Le si infila nelle dita e porta le voci e le ceneri di tempi passati, che ora li si sente dentro in un brivido che sale la schiena, e nel cuore qualcosa si muove e va giù nella pancia.
Poi si placa. Così Lei cammina, verso quella roccia che vista da lì sembra un po’ spugnosa, circondata da una miriade di alghe arenate seccatesi per il forte calore. Crolla su di essa e si fissa i piedi, respirando veloce con la bocca semiaperta.
“Hi...”
Si volta di scatto, a momenti si butta giù dallo scoglio.
“Hello...” balbetta incerta e incuriosita, fissando negli occhi il suo interlocutore.
“Sorry, but I were up there just some moment ago, and I saw you that...”
“Oh, stop...you’re talking too much fast. Excuse me, I’m Italian, so I...”
“Italia? Anche tu?”
“Oh...bè sì. Perfetto. Meglio così”. Torna a guardare l’oceano, poco le importa di aver trovato un uomo che parla la sua stessa lingua, proprio lì, in Australia. Non era mai stata fortunata, aveva imparato a dubitare della dea bendata. Lo sconosciuto però non intende mollare. Tiene tra le mani un oggetto su cui cade inevitabilmente la sua attenzione: è una reflex, anche bella, di una marca che non conosce, ma con un obbiettivo giapponese, di quelli costosi. Ha un laccio nero che gira intorno al collo dell’uomo, che indossa solo un costume da spiaggia blu. Si avvicina e le mostra la macchina fotografica.
“Senti, non per importunarti, volevo solo sapere se ti sentivi bene. Ero lassù in cima - e indica una specie di rupe sulla destra della piccola baia – volevo fotografare il tramonto, ma poi ti ho sentita gridare, così ho visto che ballavi. Ecco guarda...” Sul piccolo schermo digitale della fotocamera inizia a far scorrere numerose foto, premendo un piccolo pulsante. Ritraggono tutte Lei, ora in una posa, ora in un’altra, effettivamente la luce è perfetta. Le lascia scivolare davanti agli occhi abbastanza con indifferenza.
“Non stavo ballando” e torna a rivolgere lo sguardo altrove, verso quella piccola frazione di sole che rimane ancora riflessa sull’acqua.
“Ah no?” è basito. “Eh cos’è che facevi allora? Anzi scusa, sono indiscreto, forse è meglio che...” ritira la reflex e indietreggia di un passo.
“Ho perso una cosa, stavo provando a cercarla...ma evidentemente non è il modo giusto”
“Metodo bizzarro di cercare qualcosa... – sorride – cos’è che hai perso? Vuoi una mano?”
“Ho perso me stessa” è seria mentre lo dice, così tanto che il sorriso beffardo dapprima comparso sul volto del ragazzo subito si trasforma in una linea dritta sul suo volto.
“Mi stavo cercando, ma non ci sono. Se mi trovi fammi un fischio.” Le trema un po’ la voce, forse piange. Lui preferisce lasciarla in pace, si sente un po’ in colpa.
Si allontana senza proferir più parola, con occhi confusi.
Lei si alza dalla roccia, si avvicina di nuovo al mare, a quel velo trasparente che all’estremità si increspa di bianco nella schiuma. Del sole non resta che una pennellata, che però è sufficiente ad incendiare quella striscia di spiaggia e ad abbagliarla riflettendo sull’acqua la sua luce.
Era venuta fino in Australia per cercarsi. Dove diavolo era finita? Cosa doveva ancora fare per capirci qualcosa? Forse doveva solo rassegnarsi all’idea che certe cose una volta perse non si ritrovano più. Come quel vecchio maglione o la penna con il ciuffo di piume in cima. Mai ritrovati. Nemmeno sotto il divano. In effetti non ci aveva controllato sotto il divano...ma di solito quando una persona si perde scappa nel cielo, oppure nel mare, non sotto i divani.
A speranze perdute, sta per lasciarsi andare ad un pianto. Gli occhi inondati del riflesso del sole si fanno lucidi di lacrime, salate come la distesa d’acqua che le sta dinanzi.
Poi sente un fischio.
Si volta verso quel suono. E’ ancora lui, e sventola un braccio, un po’ di metri alle sue spalle, facendole cenno di avvicinarsi. Lei corre senza sapere il motivo preciso. Lui ha un sorriso grande e le vuole mostrare un’ultima fotografia. La osserva. Si vede sempre Lei, ma stavolta è solo una sagoma nera. Lo scatto è in controluce, i contorni sono di un corpo di donna, longilineo e un po’ confuso, in piedi davanti al mare, e intorno ad esso un grande alone di luce rossastra.
“Visto, ti ho detto che ti avrei dato una mano. Eccoti, ti ho trovata”.